Quattro storie per un cimitero


Un cimitero può raccontare una storia?

Chi conosce Sarajevo sa che i cimiteri fanno ormai parte del campo visivo abituale dell’abitante e del visitatore della città. Su per le colline, nei parchi, in ogni fazzoletto di verde, qualche tomba purtroppo, dopo l’infame assedio e la guerra degli anni ‘90, la si trova sempre.

Ma c’è un cimitero, nella Gerusalemme d’Europa, nascosto, poco visibile e visitato, antico e misterioso, in grado di raccontare più storie. Una secolare di accoglienza e convivenza, una di silenzio e di olocausto, una di guerra e un'altra di memoria.



Si trova all’altezza di Grbavica, sulla collina di Kovačići. Un campo verde, in dolce salita, a picco sui moderni palazzi di vetro della ricostruzione, a poche decine di metri in linea d’aria dal Ponte dei salici  (Ponte Vrbanjia), tristemente noto per aver visto, nel 1992, i primi due morti dell’assedio: le studentesse Suada e Olga, uccise a seguito di una manifestazione per la pace.

Il cimitero, utilizzato dal lontano 1630, è quello ebraico sefardita. Si tratta del più vasto d’Europa dopo quello di Praga e conserva la traccia profonda di un'altra religione, talvolta dimenticata, che ha fatto di Sarajevo un esempio di convivenza e multiculturalità.


Ma chi sono i sefarditi? Inizia qui la prima storia. Sono gli ebrei che abitavano la penisola iberica (Sefarad significa Spagna in ebraico), dispersi in Italia, nei Balcani e nel Nord Africa dopo la famosa “cacciata” del 1492 compiuta da Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, cattolicissimi sovrani del neonato stato spagnolo.


I primi ebrei arrivarono a Sarajevo nel 1566. Trovarono la città e Bosnia intera, allora dominata dai turchi, ricca e in piena espansione, a maggioranza musulmana ma tollerante dell’ingresso di altre religioni, molto simile come passato di conquiste e sofferenze alla Spagna in cui  avevano lasciato casa, cuore e ricordi.



A Sarajevo non ci fu mai un ghetto, ma un quartiere integrato con il tessuto sociale. Il legame che questa comunità strinse con la città fu profondo. Otto sinagoghe vennero erette e la “chico Jeruzalém”, come veniva chiamata in  spagnolo arcaico, divenne presto un centro fondamentale per il mondo sefardita, la città più ambita da rabbini e intellettuali, che produceva due riviste sull’erbaismo e aveva un ampio cimitero ebraico, in posizione invidiabile, sul centro della città.
 
La Bosnia fu una piccola, bella seconda casa per gli sradicati giudaici spagnoli, che mischiarono lingua e cultura ben presto con i bosniaci. Sarajevo conserva ancora oggi l’Haggadah, un manoscritto miniato tra i più antichi del mondo, realizzato a Barcellona intorno al 1350, con la particolarità interessantissima di vedere rappresentate persone, nonostante la religione ebraica lo vietasse. Questo volume unico, dal valore inestimabile, arrivò nella capitale bosniaca alla fine dell’800. Fu coraggiosamente nascosto, con l'aiuto di cattolici e musulmani, ai nazisti, che lo reclamavano. Poi ancora fu celato durante l’assedio, per non permettere la sua distruzione.

I nazisti, ecco la seconda storia che narra questo luogo. La comunità ebraica di Sarajevo arrivò a contare quasi 12.000 persone prima della seconda guerra mondiale. Uomini, donne e bambini che, nonostante le rivolte e l'aiuto delle altre comunità cittadine, che tanto fecero per evitare le deportazioni, finirono per la maggior parte nei campi di sterminio. Solo in poco più di mille si salvarono e rimasero o tornarono in questo cimitero, divenuto improvvisamente troppo grande, maledettamente immenso, per una comunità decimata.


Visitare oggi il cimitero sefardita di Sarajevo è un'esperienza toccante. Ci siamo stati in un pomeriggio d'agosto, nella solitudine rotta solamente dalla corsa di qualche cane randagio tra le tombe divelte. Già, perchè sono molte le lapidi capovolte, rotte, ammassate, come fosse passato un uragano nella pace secolare di questo prato verde. Ecco la terza storia.

Durante gli anni dell'assedio, dal 1992 al 1995, questo luogo di pace e ricordo finì per trovarsi proprio sulla linea del fronte. Fu teatro di sparatorie, minato e, si dice, utilizzato dai cecchini per colpire la città da una posizione strategica. Le lapidi furono un utile riparo, le fosse ottime trincee.


Si trovano, e sono un colpo al petto, i segni dei proiettili e i volti dei defunti cancellati dalle fotografie delle lapidi più recenti, per spegio forse, o per paura che essi potessero vedere dall'aldilà le atrocità compiute, e suggerire a chi di dovere una giustizia quantomeno divina.


Ma nonostante i tanti segni della guerra recente, che sempre feriscono e rendono muti e impassibili, questa collina conserva ancora, osservandola in silenzio, quella magia che, come nebbia, avvolge i luoghi della storia, rendendoli meno palpabili, più trasognanti. Ecco infine, la quarta storia, quella attuale.

Camminando nell'erba sconnessa, tra gli strani sarcofaghi di pietra, così semplici ed eterni, tra le iscrizioni in rilievo, antichissime, e le frasi incise in spagnolo arcaico, sembra di riuscire ad immaginare, ad afferrare, quello spirito che univa e non divideva, che qui soffiò così forte e finì poi per essere incanalato, dall'interesse di qualcuno, in un mulinello della storia.


Le pietre rimangono, rimane la Storia, rimane il grande libro salvato miracolosamente da più guerre, rimane il panorama ampio, di grande respiro, verso la città.
Quello stesso colpo d'occhio che il primo rabbino di Sarajevo, Samuel Baruch, osservò con soddisfazione, nel 1630, dopo aver concluso la trattativa d'affitto di questo ampio terreno con il Vakuf.

Un cimitero può raccontare una storia?

Questo luogo, con i suoi segni, i suoi graffi e il suo silenzio, è in grado di narrarne molteplici: percorsi umani antichi e attuali al tempo stesso.
Vale la pena visitarlo, oggi che è stato quantomeno ripulito e rimesso in sicurezza dopo anni di abbandono, per respirarne l'anima, per capire, per non dimenticare.


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