Ci sono città silenziose

A volte capita che per strane coincidenze accadano degli incontri. Carlotta l'ho scoperta leggendo un foglio lunghissimo che parlava di acqua... e di Sarajevo. Così le ho chiesto se avesse voluto scrivere qualcosa in questo blog, che tanto ho dedicato (e dedicherò) a questa città.

Così è nato questo post, in cui le mie foto sono solo una cornice al testo di Carlotta Pianigiani, che ringrazio infinitamente.



Ci sono città silenziose, città piene di gente, città vuote, città nuove e città vecchie.
Ci sono città che ti fanno sentire insignificante, piene come sono di cattedrali e piazze e fontane e ci sono città in cui non abiteresti mai perché il buio regna tra le case e nei cuori della gente.

Ci sono tutte queste città e poi c’è Sarajevo.


Quando sono arrivata pioveva forte in mezzo alla stazione degli autobus, non c’era nessuno sui marciapiedi e per le strade perché era presto. Rimango troppo a lungo in un autobus vuoto, con i vetri appannati dalla pioggia slovena, il pavimento bagnato, l’aria viziata da un’umanità già scesa. Abbiamo viaggiato di notte, su dei sedili scomodi, tutti accartocciati, svegliandoci a tratti per i controlli alle frontiere. Sembriamo deportati mentre scendiamo le scalette con i documenti in mano, gli occhi ancora appiccicati, le facce ingiallite sotto ai neon, il giubbotto abbandonato sul sedile. 
Un altoparlante gracchia in non so quale lingua che dobbiamo scendere, lo capisco perché tutti si preparano all’uscita al suono dell’ultima parola “dokumenta” che viene ripetuta più volte.

Sono rimasta solo io in questo autobus, io e un signore asiatico, turisti di un paese dilaniato e in rinascita.


Mi faccio portare da un tassista verso la Bascarsijia, mi sorride mentre scivoliamo lungo il viale dei Cecchini. I buchi nei muri sono la prima cosa che vedi a Sarajevo, i buchi e i cimiteri. Ci sono travi che feriscono il cielo, tombe che sbucano dai prati, pezzi di intonaco che mancano, case rattoppate. E’ la prima cosa che vedi e che senti ed è inevitabile. 


Tendo a dare immagini romantiche e drammatiche ai posti in cui vado, un po’ perché vorrei lavorare in zone di guerra, vorrei curare chi non ha niente, vorrei regalare tutto il poco che ho a chi ha meno, un po’ perché a me piacciono questi drammi, mi piace il degrado e lo schifo, mi piace sguazzarci dentro per dare una mano, per far risaltare la mia fortuna, per sentirmi meno in colpa. 

E quindi la prima cosa a cui penso appena entrata in Bosnia, è il 1992, alle file per l’acqua, al cibo che manca, ai vetri in frantumi, penso alla gente che scappa ai semafori, ai tonfi delle bombe, ai lampi nella notte. Penso alle gambe che saltano per le mine, alle fasciature di fortuna, alle bende sporche, alle croci rosse sui kit d’emergenza. Penso alle finestre di plastica dell’UNHCR, ai ciocchi di legno in mezzo alle cucine, alla città che nonostante tutto va avanti. Penso a Karadzic, penso che tre giorni prima di andare sulle montagne faceva il medico al Koshevo, penso a tutti i bosniaci che ha curato, prima di iniziare a sparargli addosso. 

Dicono che i bambini di guerra piangano molto meno, che nonostante le ferite riescano a sorridere, dicono che è la miseria che si fa routine, è la presenza silenziosa della tragedia a tappargli la bocca, è la quotidianità della morte che li prepara a non urlare.


Penso a tutto questo mentre cammino nella piazza dei piccioni, mi fermo a comprare dei semini e inizio a spargerli tutti intorno. Mi siedo e mi giro intorno, guardo la gente, penso che tutti loro si sono rinchiusi nelle cantine, che tutti hanno imparato a ignorare i morsi della fame, a lavarsi ogni tanto, a pezzi. Guardo i sorrisi, i capannelli di ragazzi che chiacchierano, i vecchi che giocano a scacchi nelle piazza. 

Paragono Sarajevo a una donna ferita nell’orgoglio, una a cui è morto un figlio, una che è stata distrutta, violentata, usurpata, per rinascere. Non si è abbandonata al dolore, non ha perso la speranza, ha contato i suoi morti, li ha sistemati nei campi e ha ricostruito le sue mura, ha riempito i buchi dei proiettili, mattone dopo mattone, lacrime dopo intonaco, urla dopo stucco.


Mi fa pensare al vetrocemento, questa città. Dura fuori e morbida dentro. Penso al sole che comunque riesce a entrare dalle finestre, penso che quello che accade, se condiviso, se diffuso, appare meno grave. Non si è abbandonata la Bosnia, si è lavata i capelli, si è truccata gli occhi, ha messo il vestito buono ed è uscita, a testa alta.




E’ il sapore di rinascita che ti fa amare questo posto, è la vita che nonostante tutto rimane negli sguardi della gente. Ci sono due modi per affrontare le cose, semplificando un po’. Ci sono quelli che si disilludono, che si incattiviscono, quelli che non vedono niente di buono, quelli che aspettano sempre il leone dietro a un sasso.  




Questi qui lasciano le cose così come stanno, lasciano scorrere il tempo, i mesi, pensano che ci vorranno anni prima che inizi ad avere fame, prima che si metta a cercare prede, a cacciare, ma sanno che, prima o poi, comincerà a camminare e ad attendere che passi qualcuno, per agguantarlo nell’ombra. 

Questi sono quelli che non ce la fanno, ancorati come sono al passato e alle rivendicazioni, sono quelli che si infilano nel buio, che mettono la testa sotto al cuscino, sono quelli che soffocano tra i loro pensieri.


 


E poi ci sono quelli che lottano, quelli che si arrabbiano, quelli che fanno i conti con se stessi, quelli che tirano le somme, quelli che partono da zero e ricostruiscono. Questi sono quelli che riflettono, che traggono il buono, quelli che tirano su la testa, che si tolgono la polvere dai vestiti e che smettono di pensare. Sono quelli che celebrano il ricordo, come forma di rispetto per il futuro ma anche come monito per il domani. 

Io non sono così, non sono mai riuscita a superare certe cose, certi dolori rimangono dentro, intrappolati nella pancia, distruggono cuore e mente.


Sta a noi scegliere cosa farne, possiamo dedicare una vita al silenzio, alle lacrime, agli urli, possiamo scegliere di vivere senza speranza e con la paura. Possiamo abbandonare la testa sotto le nuvole oppure possiamo reagire, dimenticare, seppellire.

Il cervello è un organo meraviglioso, seleziona cosa ricordare, incamera bellezze per preparare il corpo all’attacco. Io sto un po’ nel mezzo, non ho mai permesso alla vita di uccidermi, la speranza mi è sempre brillata in fondo agli occhi, ho sempre cercato di trovare qualcosa di cui sorridere anche nella tempesta, ma non sono mai riuscita a dimenticare.


A me Sarajevo ha dato questo, mi ha dato voglia di continuare, di combattere, di urlare.
Mi ha spiegato che si può ripartire dal niente, che basta volerlo, che basta impegnarsi, mi ha insegnato che si può riempire i buchi, nei muri e nei cuori.

Non mi era mai capitato di non voler andare via da una città, di tenerla dentro per così tanto tempo. In genere quando sono in viaggio, dopo un po’ inizio a riapprezzare la mia città di provincia, inizia quasi a mancarmi, a smettere di soffocarmi. A Sarajevo, però, non è mai successo.

Carlotta Pianigiani


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