Non è facile parlare del Vajont, e poi già spettacoli teatrali, libri, film, documentari, hanno raccontato egregiamente quella che è una delle più grandi tragedie italiane. Una tragedia che si poteva evitare. Che ha provocato circa 2.000 morti.
Ma nel borgo vecchio di uno dei Paesi coinvolti, quello a monte della diga, Erto, ho letto una frase su un muro scalcinato riportata da un suo noto abitante, Mauro Corona. La frase è di Josef Brodskij: "Se c'è qualcosa che può sostituire l'amore, questa è la memoria".
Allora ricordiamo in poche parole che il 9 Ottobre del 1963, alle 22 e 39, una frana enorme, di circa 270 milioni dimetri cubi di roccia, si staccò dal Monte Toc e precipitò ad una velocità di circa 100 Km all'ora nell'invaso del Vajont, chiuso a valle da un'opera ingegneristica faraonica, la famosa diga, un vanto italiano, una delle più alte al mondo.
Una colonna immensa di acqua e fango si innalzò per riversarsi a monte su Erto e Casso ed a valle, dove prima si incanalò in una strettissima gola prendendo velocità e pressione, caricandosi di una forza inimmaginabile, su Longarone, che fu completamente rasa al suolo. Prima arrivò l'aria, con una forza pari a 3 volte il fallout della bomba atomica di Hiroshima, poi l'acqua, a spazzare i corpi di uomini e animali dilaniati giù lungo il Piave, a devastare altri paesi.
Il disastro si poteva evitare. La frana era nota, la conformazione del monte (e già il nome, che significa "a pezzi") era ritenuta rischiosa già da prima della costruzione, i segnali da tempo erano chiari. Questa è una delle tante storie italiane dove interesse e potere non hanno guardato in faccia a nessuno, rischiando fino alle estreme conseguenze.
Ma nel Vajont c'è anche altro, dalla costruzione della diga in poi. L'idea di una montagna da risucchiare come vampiri per poi andarsene, il disprezzo per il lavoro umile della gente nei campi. Chiunque di noi avrebbe abbandonato il mal di schiena e il sudore dell'agricoltura di montagna per abbracciare la modernità in arrivo, la diga con il suo lago, il turismo... e c'è chi, su questa legittima voglia di riscatto, ci ha marciato e ci continua a marciare.
Camminando per Erto vecchia, dove la maggior parte delle case è abbandonata, le serrande chiuse, i muri sventrati, sento un freddo che proviene dal basso. Dalla diga ma anche dalle valli, che come capillari e poi vene scendono verso il cuore pulsante di autostrade, industrie e città. Un cuore essenziale, da cui tutti dipendiamo, ma che rischia sempre più di pompare per un corpo senza sangue, che muore in periferia.
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Rubo e condivido caro Luigi perchè questa storia mi è parecchio cara e non si trovano racconti tanto semplici come questo. Stupende le foto!
RispondiEliminaGrazie Luis! bellissime foto....e il racconto toccante e dal sapore un po' "amaro" ma sicuramente da conoscere e da non dimenticare. Cri
RispondiEliminaFoto toccanti e racconto che fa stringere il cuore.
RispondiEliminaIl Vajont.
Quella con la statua in primo piano penso esprima al meglio i sentimenti di vergogna, tristezza, paura che la diga ha lasciato. Tra le braccia protettive tendiamo a nascondreci per trovare conforto, si prova a voltare le spalle, ma continuiamo a voltarci indietro e ricordare. La memoria porta onore a contadini e lavoratori e abitanti della valle, e queste foto ne sono un bell'omaggio.
Bravo il mio Gigi.
Vajont
RispondiEliminaE' il punto di inizio di tutto la storia Italiana degli ultimi 50 anni. La S.a.d.e. definita "stato nello stato" prima della strage di Piazza Fontana, prima degli anni di piombo, prima dell'Italicus, Ustica e Stazione di Bologna, come ricorda Paolini nel suo bellissimo monologo.
Presagisce tutta quella commistione unta, sporca, intollerabile eppure inestinguibile tra poteri statali, fascisti e mafiosi che finiranno per stuprare nel corpo e nell'anima il nostro Paese.
Quando mi chiedono di fidarmi, di lasciarmi sedurre dal politico con le soluzioni facili, di abbandonarmi alle decisioni altrui, penso alla scena finale del film di Martinelli sul Vajont: quando lasciamo correre la follia pura vestita di legge raccogliamo fango e macerie.
Complimenti per il lavoro Gigi, hai colto nel profondo il dramma di questa terra che è anche il nostro.
Filippo